Dream a little dream

Mi resi conto di una band chiamata Chapel Club solo qualche mese fa, quando nme iniziò a parlarne in qualche articoletto tra le novità e, successivamente, quando Indipendente annunciò la line-up completa dell’I-Day Festival.
Verso agosto dello scorso anno iniziai a chiedermi chi fosse questa band e cosa facesse, quindi mi misi a cercare qualcosa di concreto da ascoltare, ma apparte youtube e le loro canzoni sul myspace, non trovai nulla.
Andai all’I-Day conoscendo giusto una canzone di questa band e le facce dei cinque ragazzotti bianchissimi: molto cupi, energici, con una presenza scenica decente e grandi amanti del Post Punk Revival.
Mi erano piaciuti tanto, ma anche dopo il loro concerto non trovai niente di quella band, apparte un semplice Ep che non mi colpì più di tanto.
A ‘sto punto non mi resta che dire una cosa: fortuna che in questi giorni è uscito il loro album d’esordio, “Palace“, o li avrei lasciati perdere definitivamente.

Parto nel dire che sono felicissima di poter scrivere note positive su quest’album, perché questi Chapel Club non fanno uso smisurato di synth e tastierine strane, per cui niente revival della New Wave come gli ultimi Editors e i nuovi-pessimi White Lies, ma riprendono solo il Post Punk e l’essenza rock di ‘sto genere.
“Palace” è un buon album e ricco, ovviamente, di influenze e di cose già sentite: la voce cerca di essere lugubre e misteriosa in onore del Dio Ian Curtis, ma al massimo arriva ai livelli di Scott dei The Cinematics e dei giovani vocalist inglesi di quest’ondata musicale.
L’arrangiamento è decente e si mescola tra canzoni con sonorità più malinconiche e deprimenti ad altre caratterizzate da atmosfere più sognanti ed intense, presenti soprattutto nelle prime tracce.

Qualche sfumatura dei The Smiths, ma molto più cupi; leggere note di shoegaze e roba anni ’90; i White Lies dell’album precedente; i primi Editors: questi sono, per spiegare meglio le influenze e la loro musica, i Chapel Club, con l’unica differenza sostanziale che “Palace” è il loro album ed è estremamente personale, oltre al fatto di non avere atmosfere piatte e monotone rispetto alle sonorità dei White Lies.
La “copia della copia”, il revival del revival, del genere originario e pieno di roba già sentita, ma intanto questo album d’esordio è davvero variopinto, suggestivo e a tratti molto “ipnotico”, tanto da ascoltarlo più volte in loop.

Tracklist
1. “Depths”
2. “Surfacing”
3. “Five Trees ”
4. “After the Flood”
5. “White Knight Position”
6. “The Shore”
7. “Blind”
8. “Fine Light”
9. “O Maybe I ”
10. “All the Eastern Girls”
11. “Paper Thin”