The Last Shadow Puppets

 

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Passano i mesi e ci si accorge che si ha ancora bisogno di scrivere di un determinato argomento: la musica.
Rispetto agli album, poi, preferisco parlare di ciò che vedo e sento: solo in concerto, una band mostra le sue vere capacità.
Chi si esprime molto bene live sono proprio i Last Shadow Puppets di Alex Turner e Miles Kane, visti in concerto martedì 5 luglio nella bellissima cornice di Piazza Castello a Ferrara.
Non ho scritto dell gruppo in apertura (gli Yak) semplicemente perché non li ho seguiti, ma, fortunatamente, ritorneranno in Italia tra qualche mese: fanno tantissimo casino (un Garage-Punk crudo con evidente riferimento al Noise) e sono davvero coinvolgenti.

Su Lost In Groove, intanto, trovate la mia recensione:

The Last Shadow Puppets @ Ferrara

 

Suede, Morrissey e altri vegetariani…

Stavo seriamente pensando di smetterla di scrivere di musica, ma una lampadina si è accesa all’improvviso nel mio cervello da zombie: sono ancora qui a scrivere boiate colossali e di musicisti che, nonostante l’età, riescono ancora a farti bagnare (tipo Brett Anderson che resta un gran fregno).
In questo periodo, nonostante gli attacchi di panico, mi è capitato di vedere qualcuno in concerto.

Suede

Morrissey

E chi lo sa, devo solo evitare di lasciarmi andare e continuare a scrivere due boiate.
Presto ritorneranno anche quelle recensioni di nuovi artisti che non considera nessuno: insomma, ritornano il trash e i vari deliri mentali.

È arrivato dunque il momento di ritrovare la retta via e di offendere coloro che proprio non ce la fanno a stare zitti durante i concerti.12105798_1035312859846493_8190268262083130871_n

The Jesus and Mary Chain @ Ferrara Sotto Le Stelle

Ciao,
sono ritornata e ho un’ansia bestiale perché ho ripreso a scrivere: riprendo per “ordini superiori” e perché i Jesus and Mary Chain mi hanno fatta resuscitare.
Devo ringraziare tantissimo i fratelli Reid, perché è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho scritto due righe.
Ho deciso di non chiudere il blog per un motivo semplicissimo: qui c’è una parte di me, c’è la mia musica e scrivere di questo mi fa bene.
Detto ciò vi lascio con due boiate, che trovate su lostingroove, sul concerto della band di Glasgow:

Jesus and Mary Chain

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Tim Wheeler – Lost Domain

Ci sono artisti che ti entrano nella testa e nel cuore lentamente e, ovviamente, te ne innamori: ti addormenti profondamente in loro “compagnia”, facendo cadere a terra il libro che stavi leggendo e lasciando accesa la luce calda della lampada sul comodino.
Alla mattina apri gli occhi, sei ancora avvolt* tra quelle note morbide e ti senti risollevat*.

Non ascoltavo una nuova uscita discografica da inizio settembre; l’ultimo album ascoltato è stato quel “El Pintor” degli Interpol che non ricordo nemmeno come sia.
In questo periodo della mia vita, piuttosto complicato e ricco di incertezze, però, ho ritrovato quella forza di scrivere e, soprattutto, quella voglia di sentire, farmi trasportare, ascoltare in silenzio e innamorarmi di un nuovo album.
Questa sera, quindi, si ritorna alla musica: “Lost Domain” di Tim Wheeler.
Dopo 6 album con gli Ash (“1977” e “Free All Angels” sono due album che ancora oggi riescono a farmi sospirare), ha inizio la carriera solista di questo frontman che ci rivela un lato più nascosto della sua personalità: ovviamente quello più intimista e malinconico, tipico da cantautore.

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La scelta di intraprendere una carriera solista non è sempre azzeccata, dato che molte persone, molti critici, molti fan tendono a fare paragoni proprio tra la band in cui suona\canta il nostro frontman e il “nuovo” personaggio; ecco perché vi avverto fin da subito: dimenticatevi di quel Tim che ci fa urlare una “Girl from Mars”, una “Burn Baby Burn”, oppure una canzone come “Kung Fu”; piuttosto, lasciatevi trascinare dall’intensità e dalle capacità di Tim Wheeler come singer-songwriter.
“Lost Domain” si apre con la traccia strumentale “Snow in Nara” e dalla seconda traccia in poi vengono alternati: ballate delicate, ricordi di famiglia (l’album è una dedica continua al padre di Tim), dolori, gioia, morte e malattia.
Tim Wheeler dimostra di essere un ottimo cantautore: i testi raccontano la sua vita, quella del padre e, nonostante vengano le lacrime agli occhi per tutta la malinconia-tristezza che rivelano, hanno una forza evocativa unica in grado di rendere visibili e palpabili le emozioni.
Il cantautore nordirlandese non si nasconde, anzi si sfoga e realizza un album davvero incantevole, grazie alle sonorità e alle sfumature suggestive regalateci dalla London Metropolitan Orchestra e alla collaborazione con Neon Indian.

Con questa nuova uscita discografica,il frontman degli Ash tenta di ricostruire il percorso dalla vita alla morte (del padre); per quanto riguarda l’arrangiamento, invece, fa riferimento a qualcosina di Beatles\McCartney (“Hospital”), oppure a qualche elemento che ricorda lo stile cantautorale di Neil Hannon (The Divine Comedy).
Tim Wheeler è un artista completo, maturo e competente: attraverso undici tracce struggenti, ma talmente coinvolgenti a livello emotivo da non riuscire a premere “stop” e continuare a lasciar “vivere” l’album in loop, riesce a far comprendere ogni aspetto, bello o brutto che sia, della vita, grazie alla sua scrittura esplicita e alla sua voce che, anche questa volta, riesce a farmi sospirare.

Tracklist:

1. Snow In Nara
2. End of An Era
3. Do You Ever Think of Me?
4. Hospital
5. Medicine
6. Vigil
7. First Sign of Spring
8. Vapour
9. Hold
10. Lost Domain
11. Monsoon

Crocodiles live @ Covo Club

Dopo tantissima pallavolo, si ritorna ai concerti.

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Venerdì 24 ottobre sono andata al Covo Club di Bologna per rivedere, per la sesta volta, i Crocodiles di Charles Rowell e Brandon Welchez.
La breve recensione potete leggerla su RADIONATION

Black Lips live @ Hana-BI

Questo live report voglio scriverlo col cuore e non con la testa: con i Belle and Sebastian ho fatto un casino, scrivendo come se la band di Stuart Murdoch non mi avesse lasciato nulla (in realtà ho ancora le farfalle nello stomaco e sono ancora lì a Cesena a saltellare e a sospirare).

Stasera niente sospiri, magari si parla di fiatone, sudore e di salti, che se li avessi fatti quando giocavo alla volley, forse, non sarei qui a scrivere di questi dannati Black Lips.
L’unica data italiana di questi quattro pazzi-fottuti, capitanati da Cole Alexander, è al Hana-Bi di Marina di Ravenna, in questo 5 agosto che segna l’inizio dell’estate (o quasi).
Questa sera, al locale di Viale delle Nazioni, siamo in tanti, siamo carichissimi e vogliamo sbroccare insieme ai Black Lips.
Mi posiziono al lato palco, ma ci sono troppe coppiette e non si sente niente; si va verso il centro, ma c’è troppa gente alta e non si vede niente; infine, eccola lì, quella bella postazione alta di fianco ai dj e dove si vede e si sente più o meno decentemente: quest’ultima sarà la zona in cui mi scatenerò per bene, anche se avrei preferito godermi il concerto in mezzo al delirio.

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L’atmosfera è bella calda e tra gruppo e pubblico c’è una complicità strepitosa: quelli sul palco fanno un casino incredibile e il live comprende sia insulti al tecnico del suono, sia Joe Bradley che si ammazza e -quasi- sbocca sulla batteria (era di un colorito tra il viola-blu); i ragazzi del pubblico, invece, urlano, stonano, ondeggiano per aria, sudano e si riempiono di lividi sbattendo contro le transenne (che-cazzo-ci-fanno-le-transenne-al-hana-bi-?).
Il concerto parte in quinta con “Family Tree”, ma quando arriva “Drive By Buddy” si inizia a “volare” per aria, fregando tutte le zanzare-insetti vari che puntavano alle gambe degli spettatori.
Il live prosegue con “Boys in the Wood”, “Sea of Blasphemy” e “Drugs”, delle tracce spietate che sottolineano l’aspetto trasandato dei quattro: ci è mancato poco alla sboccata di gruppo sul palco, ma anche questo aspetto fa parte della scenografia dei ragazzacci – Black Lips.
Nella setlist non mancano di certo l’inno “O Katrina!”, “Hippie, Hippie, Hoorah” e, per il gran finale, “Bad Kids”, quando le transenne smettono di essere un problema e si passa all’invasione di palco.
I 17 brani eseguiti questa sera al Hana-bi, anche se vengono suonati con una velocità incredibile (già hanno una durata breve su album, live lo sono ancora di più), creano una spensieratezza che inebria tutti i sensi.

Tra qualche piccolo dettaglio di Blues-rock, tanti riferimenti al Punk americano e una buona dose di Garage, i Black Lips trasformano il concerto in un vero e proprio party: si respira quell’atmosfera di festa, in cui non ci si contiene e dalla quale si esce davvero malconci. Questa volta, però, avere i postumi sarà bellissimo, del resto fa tutto parte del pacchetto Black Lips.

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Franz Ferdinand & The Cribs @ Ferrara Sotto Le Stelle. – RadioNation

http://www.radionation.it/2014/08/02/franz-ferdinand-the-cribs-ferrara-stelle/

Altro concerto figo, altra recensione. Questa volta i protagonisti sono i Franz Ferdinand che ho avuto modo di rivedere a  Ferrara, venerdi 1 agosto.

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Damon Albarn e il tocco gelido della Morte.

Il titolo di questo post potrebbe essere legato a una nuova avventura di Harry Potter, ma questa volta il protagonista è proprio il cantante dei Blur.
Grazie a lui ho avuto delle allucinazioni spaventose non appena giunta in hotel, alla fine del concerto di Roma: nonostante tutto voglio troppo bene a Damon Albarn.

La recensione completa del concerto, però, la trovate su Radionation:

Damon Albarn live @ Auditorium Parco della Musica, Roma.

Ho deciso di postare il link sul mio blog, perché questo concerto mi ha riempito il cuore di gioia: lui è un artista al quale voglio veramente troppo bene, poi “Everyday Robots” è l’album per il quale sono in fissa da mesi.

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E niente, buona lettura.

(Prima o poi scriverò due righe sul concerto assurdo degli Is Tropical: anche loro visti a Roma, ma in una situazione totalmente differente…).

The Pains of Being Pure at Heart @ Hana-bi

L’ultima volta al Hana-Bi, prima di questo martedì 17 giugno, la ricordo a tratti: c’erano i Crocodiles, era la chiusura di stagione e con qualcuno di loro ho urlato “Common People” durante il dj set. Ricordo anche che sulle prime due note di “Girls & Boys” dei Blur è iniziata la mia corsa verso il mare, che a Marina di Ravenna fa veramente schifo, mi sono tolta scarpe e blusa (non la gonna) e mi ci sono tuffata dentro, come se dovessi liberarmi di qualche peso.
Ora, però, sembra che il bagno di notte non si possa più fare, quindi mi rassegno e su “Song 2” dei Blur mi trattengo: invece di buttarmi in mare, mi affido al Bombay Sapphire e dentro ci annego i pensieri.
La sensazione di libertà, però, c’è stata prima del dj-set, ma non durante il concerto dei Fear of Men o dei Pains of Being Pure at Heart: durante il soundcheck.
Un po’ mi fa ridere quest’ultima cosa perché il mio limite di snobismo, prima di martedì, arrivava a: “erano meglio *aggiungi anno-album-lineup a caso*… “; ma, alla soglia dei 26 anni: “oh, certo che il soundcheck è stato meraviglioso, quasi meglio del concerto”.
È solo una considerazione personale e scrivere boiate fa parte delle mie “recensioni”, ma vi spiego: c’è quella bellissima sensazione che ti avvolge quando si fa aperitivo al Hana-Bi, la fetta di lime galleggia dolcemente nella Corona e il tempo sembra fermarsi; immaginatevi tutto questo con in sottofondo i Pains of Being Pure at Heart, il rumore delle onde che si infrangono sulla spiaggia e il fatto che non ci siano delle persone (di merda) che parlano per tutta la durata del concerto.

Alle 21.30 circa salgono sul palco i Fear of Men, band capitanata da Jessica Weiss e proveniente da Brighton.
La band propone una dolce indie-pop che fa ondeggiare, ma ci sono evidenti accenni agli Smiths e il songwriting è pensato, esistenzialista e che va ben oltre l’apparenza; peccato solo che, dopo una quindicina di minuti, l’arrangiamento mi sia sembrato fin troppo costante e ripetitivo.
Prevedibile, ma almeno differente dalla maggior parte del live, è l’esplosione strumentale dell’ultimo brano della setlist,”Inside”, che coinvolge e mette in risalto le influenze noise e shoegaze della band.

Dopo quattro anni ritorna a Marina di Ravenna il gruppo di New York, o meglio: ritorna Kip Berman, dato che, nel frattempo, la line-up è stata completamente stravolta.
In occasione del concerto viene presentato il nuovo “Days of Abandon”, un album parecchio differente da “Belong” e dall’esordio, ma con alcune tracce interessanti che dimostrano avere maggior intensità\espressività al momento dell’esecuzione.

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Intorno alle 22.15 entra Kip Berman in compagnia della sua Telecaster e con “Art Smock” inizia questo piacevole concerto al Hana-Bi: applausi ne abbiamo e c’è un bel silenzio suggestivo tra i presenti che mette in risalto la voce morbida ed inconfondibile del frontman, nonché la bellezza di questa traccia.
Alla fine del brano entrano sul palco i strumentisti che accompagnano Berman nei live: si parte in quinta con una delle tracce più seducenti del nuovo album, “Until the Sun Explodes”, fino ad ondeggiare e canticchiare classici come “The Body”, “Heart in your Heartbreak”, “Young Adult Friction”, “This Love is Fucking Right”.
La nuova line-up è all’altezza della situazione, in particolar modo Jessica Weiss (la vocalist dei Fear of Men) che si trova in perfetta sintonia con Kip: due voci leggere che si uniscono e che fanno sognare ad occhi aperti, con in sottofondo certe smielate à la Smiths e Smashing Pumpkins.

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È tutto davvero piacevole e c’è questa bellissima atmosfera che domina al Hana-Bi, ma ci sono anche evidenti cambiamenti nel sound che fanno storcere il naso agli amanti dei primi due album: compare, infatti, una certa “lentezza” in quei brani che dovrebbero essere più spensierati e suonati con più energia.
Il peggio, però, avviene subito dopo una breve pausa, quando Kip torna sul palco da solo per eseguire “Ramona”: della canzone si sentirà giusto qualcosina, ma la voce del frontman viene coperta da chiacchierate riguardanti vacanze improbabili (andare affanculo, no?) e progetti del genere.
Fortunatamente, i strumentisti ritornano sul palco e il nostro amato Kip continua a scatenarsi, a ballare, a fare passi scoordinati e a cercare di coinvolgere il più possibile il pubblico del Hana-Bi: Kip ama questa venue e ce lo dimostra, ma è il suo pubblico che, forse, tra gioie e dolori, non lo ricambia appieno.
Eccoci dunque arrivati alla fine del concerto con lo snobismo generale del tipo: “erano meglio 4 anni fa, quando c’era Peggy Wang” che circola nell’aria, ma sempre e comunque con un botto di gente a fare fila al banchetto del merchandise.

Cold Cave + Nine Inch Nails @ Unipol Arena, Bo

Non sono abituata ad assistere a concerti che iniziano presto, ma alle 20 di questo afoso 3 giugno si entra alla Unipol Arena di Casalecchio per vedere Cold Cave in apertura ai mostruosi Nine Inch Nails.

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Il duo di Los Angeles, ovvero il frontman Wesley Eisold accompagnato da Amy Lee alle tastiere \ synth \ basi, è avvolto nel buio più totale, a parte qualche raggio luminoso improvviso e delle schermate sullo sfondo che caratterizzano una piccola, ma efficace, scenografia che si lega perfettamente alla musica dei Cold Cave.
C’è un evidente stacco tra le canzoni che fanno parte della compilation “Full Cold Moon”, decisamente cupa ed inquieta, rispetto alle tracce più ballabili ed entusiasmanti degli album precedenti, anche se il sound resta fisso su quella scia tra post-punk, new-wave e dark-wave (“Confetti”, “Love Comes Close”…).
L’atmosfera è davvero pesante, vedo qualche mossa di Wesley sul palco e il suo ciuffo che fa avanti-indietro; il rapporto col pubblico è distaccato, tipicamente americano, ma alla fine ci ci sono i soliti ringraziamenti e un “ci rivediamo ad ottobre” (sì, al Locomotiv).
Alla fin dei conti è un concerto decente, anche se il frontman ogni tanto stecca e il live è pieno zeppo di basi: preferisco una band al completo, piuttosto che sonorità registrate, ma valuterò meglio questo progetto tra qualche mese, proprio in occasione del loro live al Locomotiv.

L’opening di Cold Cave ai Nine Inch Nails, però, è perfettamente azzeccato: la dark-wave di Wesley e di Amy creano un’atmosfera che si ritroverà anche negli headliner.
Proprio da un ciuffo di capelli che sta tra new wave- dark wave e post-punk, si passa a cinque animali da palcoscenico che esplodono e passano da un genere all’altro: i Nine Inch Nails guidati da -ma-ha-davvero-quarantanove-anni-?- Trent Reznor.

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Premetto di conoscere davvero poco dei Nine Inch Nails, ma una band così completa, musicalmente e non, capita raramente di trovarla in concerto a Bologna.
La band di Cleveland inizia con una “calma” apparente, con quasi tutta la formazione (4/5) allineata e sotto una doccia di luci blu\violette: qualcosa non quadra, è tutto tropo tranquillo.
Dopo nemmeno tre canzoni, infatti, iniziano i fuochi d’artificio e l’intera Unipol Arena (band e pubblico) esplode in un ruggito potente e della durata di circa un’ora e quaranta.
Poco in forma per la prova costume? Ci pensa Trent che, per tutta la durata del concerto, dimostra di avere un timbro vocale sempre costante e travolgente, anche durante le sue lezioni di workout e di gag per avere glutei sodi e gambe snelle: trovarlo un frontman di quarantanove anni così in forma…
I NIN si caricano e travolgono, mentre una scenografia pazzesca segue alla perfezione questa esplosione di suoni tra post punk, dark wave, heavy metal e industrial: si ha quasi l’impressione di essere sospesi tra un rave e un concerto metal.
A rendere il concerto della band di Cleveland ancora più spettacolare è proprio questo fantastico sfondo visivo caratterizzato da giochi di luce in perfetta sintonia con la musica, in particolar modo con la parte ritmica basso-batteria, dei NIN: un vero e proprio show completo che coinvolge tutti i sensi e che, prima dell’encore, con “The Hand That Feeds” e “Head Like a Hole”, quasi ci acceca.
Dopo la brevissima pausa, la band torna sul palco e ci saluta con “The Day the World Went Away” e, infine, con la bellissima “Hurt”, cantata da tutti i presenti col cuore, grazie alla quale si ritorna alla realtà e si riacquista quel senso di calma iniziale.
Un concerto intenso, esplosivo, caldo e ricco di emozioni: uno show perfetto.